Un altro estratto dal mio primo volume
…In libreria, come colti alla sprovvista, rimanemmo di stucco alla vista del suggestivo e promettente titolo, Le Impronte degli Dèi, di un nuovo saggio di Graham Hancock, autore già noto e apprezzato per la sua precedente pubblicazione, Il Mistero del Sacro Graal, testo pure interessante ma di altro profilo. Il titolo catturò la nostra curiosità all’istante. Negli studi scolastici classici avevamo già divorato moltissimo sugli Dèi, Dee e semidei.
Li avevamo intesi tutti trascendentali e confinati nel mito. Mai avremmo immaginato che avessero lasciato impronte sul pianeta. Lo acquistammo subito. Un volume di quasi 700 pagine che consumammo in pochi giorni! Che leggemmo e rileggemmo di tanto in tanto perché apriva, in modo dirompente, una ricerca storica sulle antiche civiltà che mai avevamo incrociato nei nostri studi fino allora. Offriva, finalmente, una chiave di lettura di assoluta novità e di certo più convincente.
Con l’autore abbiamo intrapreso una ricerca ad ampio raggio e messo insieme i pezzi dell’enorme e misterioso puzzle della dimenticata storia dell’umanità. Nelle antiche rovine di diverse popolazioni, come la Grande Sfinge d’Egitto, i misteriosi templi andini di Tiahuanaco e le maestose piramidi del Sole e della Luna del Messico, abbiamo scoperto, non solo le chiare impronte di un popolo sconosciuto che prosperò durante l’ultima glaciazione, anche i segni di un’intelligenza superiore, in possesso di sofisticate tecnologie e dettagliate conoscenze scientifiche sulle ere cosmiche prima di qualunque civiltà conosciuta.
Richiamando e fondendo i miti e le leggende universali che contengono la maggior parte delle testimonianze preistoriche in nostro possesso, con Hancock abbiamo seguito le tracce di uno specifico linguaggio scientifico decodificando i risultati di millenni di accurate osservazioni astronomiche. Alla luce dello studio di antiche mappe – che mostrano come fosse la conformazione della Terra 12.000 anni fa – si è così evidenziato il livello di precisione con cui erano state realizzate, eguagliato dai nostri cartografi solo nel XIX secolo.
Seguendo ancora l’autore, anche quando utilizza le tecniche più evolute e sofisticate di geologia e astronomia, abbiamo costatato che la datazione, convenzionalmente accettata di numerosi siti archeologici di eccezionale rilevanza, potrebbe non essere corretta e che essi dovessero essere considerati molto più antichi di quanto sia stato finora supposto.
E abbiamo cominciato a presumere che le straordinarie scoperte di Hancock potessero costituire il nucleo per una rivoluzione, un cambiamento drammatico e irreversibile del modo di comprendere il nostro passato e di conseguenza noi stessi.
Ancora di più, una premonizione probabilmente. Alcuni dei punti più allarmanti riguardano il tipo e l’intensità di una catastrofe planetaria che deve essersi verificata per aver distrutto quasi tutte le tracce di una grande civiltà. A conclusione della puntigliosa ricerca analitica, non si può non condividere che le prove di una simile catastrofe, insieme con quelle di molti altri eventi, siano da considerarsi sorprendentemente schiaccianti.
A proposito di mappe antiche, va richiamato lo studio specifico di Charles H. Hapgood, Le Mappe delle Civiltà Perdute, ossia, Le prove dell’esistenza di una civiltà avanzata nell’Era glaciale. Il ricercatore è altresì noto per la teoria scientifica dello slittamento della crosta terrestre e del conseguente fenomeno del dislocamento dei poli,eventi che si sarebbero verificati più volte – come suggeriscono gli studi di vari ricercatori – nella storia del pianeta. Studi che l’hanno visto in stretta corrispondenza con lo scienziato Albert Einstein e che riprenderemo nel corso del nostro lavoro.
Nel saggio, il professore universitario americano Hapgood analizza a fondo – dal punto di vista storico, geografico e matematico – una lunga serie di raffigurazioni complete del nostro pianeta, realizzate prima che la Terra fosse stata tutta esplorata. Di seguito, espone la tesi, supportata da notevoli prove, che quelle mappe impossibili potrebbero non essere altro che la ricopiatura di perfette proiezioni del mondo immensamente antico, dovute probabilmente a una sconosciuta civiltà umana molto progredita che si sarebbe estinta, forse per una catastrofe globale improvvisa, intorno alla fine dell’ultima Era Glaciale, ben 12.000 anni fa.
Le sue conclusioni, molto alternative rispetto al sapere accademico comune, portano il ricercatore a doversi spiegare e, pertanto, a chiedersi se sia esistita veramente questa grande civiltà perduta; in tal caso, a domandarsi perché non se ne siano trovate tracce più concrete. In caso contrario, perché sino a oggi tali prove non siano state riconosciute.
Ancora, nel caso in cui quest’antichissima civiltà perduta non fosse mai esistita, a interrogarsi sul perché – dalla pubblicazione del suo rivoluzionario testo nel 1966 a oggi – nessuno sia ancora riuscito a demolire con argomentazioni efficaci la tesi che lui espone in questo libro; oppure a spiegare in altro modo – e in maniera altrettanto ragionevole, però – le anacronistiche anomalie presenti sulla Mappa di Piri Re’is e sulle decine di altre carte geografiche cosiddette impossibili.
Abbiamo seguito i suoi studi e compreso come l’autore sia riuscito a scoprire, finalmente, prove difficilmente confutabili dell’esistenza di una grande civiltà umana molto progredita, migliaia di anni prima che fossero sorte quelle che abbiamo confuso per le prime società evolute. Di quella sconosciuta civiltà globale molto più antica non ci è pervenuto, però, quasi nulla.
Siamo così divenuti consapevoli che la riprova definitiva della sua esistenza si sia manifestata solo grazie ai risultati ottenuti con lo studio tecnico di Hapgood, diretto nello specifico dal ricercatore proprio per cercare di spiegare le numerose anomalie, apparentemente inspiegabili, presenti in una vasta serie di carte geografiche, soprattutto di provenienza rinascimentale. Carte di cui, in precedenza, pur essendo noto a molti il problema che esse costituivano, nessuno aveva voluto occuparsene attraverso un’autentica metodologia scientifica.
Infatti, dallo studio attento di quelle impossibili mappe rinascimentali, dovrebbe risultare evidente a tutti come in realtà esse non possano assolutamente essere considerate il frutto delle conoscenze geografiche, proprie dell’epoca in cui sembra siano state apparentemente tracciate. La loro origine risulta, senza dubbio alcuno, alquanto più antica persino di alcune migliaia di anni.
La loro stesura, appare chiaro, non può essere stata – suggerisce il saggio – che l’opera di uno sconosciuto popolo di grandi Re del Mare, il quale probabilmente potrebbe aver solcato con le proprie navi gli oceani del mondo in periodi in cui il resto dell’umanità viveva ancora solo nelle caverne.
Dalle nostre ricerche lungo i millenni al seguito di molti ricercatori, riscontreremo tanta verità dalle ipotesi investigative e relative deduzioni e intuizioni di Hapgood i cui studi e conclusioni hanno rappresentato la base di partenza e l’avvio di tante altre investigazioni.
Si evidenza nel saggio come la maggior parte di tutte le mappe ricomparse ritraessero il Mediterraneo e il Mar Nero. Si suggerisce come questa constatazione appaia del tutto ovvia giacché erano quelle le regioni che interessavano di più ai sovrani dell’Occidente e ai loro sapienti.
Allorchè un particolare fece una grande differenza, quando emerse che ne sopravvissero anche alcune che raffiguravano aree molto diverse, come le coste dell’America, dell’Artico e dell’Antartico. È proprio da quest’ultimo rilevante elemento che apparirebbe evidente il dato di come gli antichissimi e misteriosi navigatori, che per primi avrebbero tracciato le carte, possedessero strumentazioni e cognizioni matematiche di un livello così elevato da essere sempre in grado di stabilire la longitudine di tutti i luoghi, anche i più remoti, che visitavano.
E per certo si sa come nessun’altra civiltà abbia posseduto un uguale livello di sapienza, né nel periodo classico più antico né in quelli medievale e moderno fino ad almeno la seconda metà del XVIII secolo. In altre parole, nessuna popolazione umana è stata altrettanto progredita sino ad almeno il 1750 dopo Cristo.
E per chi non vuole accettare la necessità di stabilire la verità sullo sviluppo reale della storia dell’umanità, non c’è a questo punto che un’unica contromossa possibile: riuscire a dimostrare che tutte le mappe esaminate in questo loro studio sono false. “Di sicuro non si tratta di un compito facile” – si lascia andare Hapgood, quasi lanciando il guanto di sfida agli accademici.
continua…